Prospettive per la stampa americana dopo Trump — di Jay Rosen, parte 1 e 2.
Quella che segue è la mia traduzione dei due post pubblicati da Jay Rosen su PressThink il 28 e 30 dicembre 2016. Restano in lingua…
Quella che segue è la mia traduzione dei due post pubblicati da Jay Rosen su PressThink il 28 e 30 dicembre 2016. Restano in lingua originale sia i numerosi link che trovate nel testo, sia i commenti dei lettori che trovate in fondo ai post originali. Qui trovate il primo post e qui il secondo.
Marina Petrillo
L’inverno sta arrivando: prospettive per la stampa americana dopo Trump — di Jay Rosen.
Quanto è brutta la situazione? E’ brutta. E spiegherò perché. Qualche idea luminosa? Qualcuna. Questa è la prima parte. La seconda parte è su quello che si può fare.
Questa riflessione è cominciata come un thread su Twitter sulle “cose da cercare” nei prossimi sei-otto mesi. I lettori hanno chiesto che cosa si potesse fare per reagire. Cercherò di rispondere a questa richiesta nella seconda parte (che è qui). Prima dobbiamo capire quanto i problemi siano profondi e collegati fra di loro.
Quanto è brutta? Abbastanza brutta.
Per una stampa libera che tenga d’occhio il potere, questo è il periodo più buio di tutta la storia americana dai tempi della prima guerra mondiale, quando vigeva una censura massiccia e la repressione del dissenso. Dico questo perché stanno succedendo tante cose tutte insieme a disarmare e togliere potere al giornalismo serio, o a spingerlo fuori dalla scena. Molte sono ben note, ma aiuta metterle tutte insieme. Ecco la mia lista:
1. Una crisi economica nelle aziende che producono informazione (quasi tutte), che lascia indebolita l’occupazione del giornalista, specialmente a livello statale e locale, dove le redazioni sono state decimate dal declino dell’industria dei giornali. Il denaro digitale sta andando a Google e Facebook, ma loro non hanno redazioni.
2. Un ambiente a bassa fiducia per la maggior parte delle istituzioni politiche e dei loro leader, gli stessi che compaiono regolarmente nelle notizie.
3. Un modello guasto e superato di fare giornalismo politico, che cerca di connettersi col pubblico attraverso il reportage “interno” o di accesso a una classe politica la cui legittimità si sta a sua volta lentamente erodendo. E visto che quasi tutti hanno sbagliato a predire il risultato del 2016, la responsabilità di questo enorme errore è equamente distribuita su tutta la stampa, il che significa che non c’è nessuno responsabile di riparare ciò che si è rotto.
4. Un movimento organizzato nella destra politica per screditare il giornalismo mainstream, che va da Steve Bannon alla Casa Bianca all’esercito di troll che Trump conta online, con Breitbart, il Drudge Report, i talk show radiofonici e gli opinionisti della Fox a mediare fra i due poli, mentre la frangia della “realtà alternativa” si sente sempre più incoraggiata. L’ultima tattica è di gridare ai quattro venti tacciando di essere “fake news” qualunque tipo di reportage che sia in conflitto con la propria visione del mondo, lasciando di fatto il termine “fake news” svuotato della sua valenza di avviso di frode. “Nel corso degli anni, abbiamo fatto con successo il lavaggio del cervello al nucleo centrale del nostro pubblico perché non si fidasse di niente con cui fosse in disaccordo”, ha detto a un giornalista del New York Times John Ziegler, un conduttore radiofonico conservatore. “Dato che i guardiani hanno perso credibilità agli occhi dei consumatori, non vedo come si possa invertire questo processo”. In effetti, nessuno sa come rimediare.
5. La rapida escalation di questa spinta al discredito man mano che Trump faceva presa sull’elettorato. Dal 1970 questa spinta è cresciuta, dai discorsi di Spiro Agnew in cui si mettevano in dubbio le motivazioni delle persone che raccontavano un presidente repubblicano, al controcanto alla narrazione liberal fatto dalle personalità di Fox News, alla sfiducia verso tutti i media mainstream o generalisti con Rush Limbaugh, e adesso anche oltre. Sean Hannity — che probabilmente è più vicino a Trump di chiunque altro nei media — di recente ha detto in diretta: “Finché i rappresentanti dei media non escono allo scoperto sulla loro collusione con la campagna Clinton e non ammettono di aver consapevolmente infranto ogni standard etico che si suppone dovessero rispettare, non dovrebbero avere il privilegio di raccontare il presidente per vostro conto, per conto del popolo americano”. In altre parole, alla stampa mainstream non dovrebbe essere concesso di coprire Trump. Qualche anno fa, una cosa del genere sarebbe stata lungi dall’essere accettabile. Adesso è un test plausibile di quanto le acque siano inquinate.
6. Dopo la débacle del 2016, la fiducia nei mezzi di informazione come istituzioni sembra più bassa che mai nella memoria recente, mentre la rabbia popolare raggiunge un picco epocale. Il risentimento arriva dalla sinistra, dalla destra, e da ciò che resta del centro. Secondo il Pew Research Center: “Soltanto due americani su dieci (il 22%) si fidano molto delle informazioni che vengono dalle testate di stampa locali, che siano online o offline, e il 18% dice lo stesso delle testate nazionali”. Ecco Gallup a settembre 2016: “Il numero di repubblicani che dice di avere fiducia nei media è precipitato al 14%, dal 32% di un anno fa. Molto probabilmente si tratta della fiducia più bassa registrata fra i repubblicani negli ultimi vent’anni”.
7. Un’omogeneità delle redazioni americane e una concentrazione sulle coste che può essere descritta in molti modi — la carenza di diversità (etnica, di genere e altro, NdT) è la più comune, con pareri discordi su quale tipo di diversità sia più desiderabile — che lascia la stampa mal equipaggiata per adottare iniziative creative e colmare un divario culturale. La situazione è stata riassunta nella frase più citabile scritta da un giornalista sulla candidatura di Trump: “La stampa lo prende alla lettera, ma non lo prende sul serio; i suoi sostenitori lo prendono sul serio, ma non lo prendono alla lettera”. (Salena Zito su The Atlantic.)
8. Una figura che è arrivata al potere in parte proprio montando l’odio contro la stampa, e che non dà segni di voler mettere fine a questa pratica ingiuriosa… sommata a uno schema disturbante per cui Trump trasmette dichiarazioni vergognosamente false sul suo feed Twitter, la stampa reagisce cercando di smentirle, e il furore che ne risulta funziona a vantaggio di Trump perché infila i giornalisti nel ruolo di antagonisti meschini e rancorosi, con Trump nella parte dell’uomo che sopporta i colpi e che “dice le cose come stanno”.
9. L’emergere di uno stile politico autoritario in cui fare a pezzi le norme della democrazia americana (come quando Trump ha messo in dubbio la legittimità delle elezioni, o ha suggerito di perseguire legalmente la sua rivale) lavora a vantaggio di Trump presso un’enorme porzione dei suoi sostenitori, senza riuscire a mettere in allarme gli altri. Questo è particolarmente problematico perché sono proprio le regole della democrazia a dare alla stampa il ruolo che ha nella vita pubblica e nel governo rappresentativo; se queste norme possono essere impunemente infrante, questo significa che la stampa può essere scaraventata da parte senza che succeda un granché.
10. La prospettiva sempre più debole che possa esistere un dibattito basato sui fatti al quale i giornalisti possano dare un contributo utile quando il leader del mondo libero si sente autorizzato a emettere dichiarazioni palesemente false o ignoranti… unite alla piena elevazione dell’atteggiamento “la realtà ce la facciamo da noi” (che risale più o meno al 2004) a sorta di arte performativa in cui simultaneamente si incita a odiare chiunque cerchi di basarsi sui fatti e si libera il discorso di potenti attori in campo dalle minime costrizioni fattuali.
11. Uno stadio avanzato di guerra culturale, polarizzazione politica e sfiducia asimmetrica verso la stampa, in cui rivelazioni sensazionali, investigazioni approfondite e svelamenti della corruzione vengono consumati come benzina accelerando la divisione politica, invece di portare a una maggiore consapevolezza pubblica e a un graduale movimento verso le riforme. In altre parole, un giornalismo in stile Watergate sempre di più infiamma e polarizza, invece che informare e mettere sull’avviso l’opinione pubblica. Più le rivelazioni sono schiaccianti e irrefutabili, e più è probabile questa reazione furiosa, specialmente quando Trump lancia attacchi contro i giornalisti e le testate che le rivelazioni le scovano.
12. Il successo della “verifica al contrario”, un metodo sempre più in auge, in cui un attore politico consapevolmente prende dei fatti che sono stati dimostrati, e vi introduce un dubbio, cosa che libera energia (controversia, resistenza, reportage d’odio) che a sua volta aiuta a dare propulsione al movimento di coloro che volevano sconfessare quei fatti dimostrati. È così che Trump ha lanciato la propria carriera politica. È diventato un “birther” (coloro che sostengono che Obama non è nato negli Stati Uniti, NdT). Ovunque riesca, la verifica a rovescio è un trionfo contro il mestiere del giornalismo, che deve per forza essere pro-verifica o tanto vale che esca dalla scena.
13. Il Divertirsi a morte, come diceva quel libro di Neil Postman del 1985, in cui la logica dell’intrattenimento prende il sopravvento su sfere adiacenti ma nominalmente separate che si suppone siano governate da una loro logica, come quando la notiziabilità e le necessità del dibattito politico vengono subordinate ai valori dell’intrattenimento da media che obbediscono a imperativi commerciali mentre si ammantano del ruolo di servizio pubblico. Per i giornalisti, è questo il risvolto del regno di Jeff Zucker alla CNN, ed è una delle lezioni della carriera di Trump come star da “reality tv”.
14. Uno spostamento del potere-di-informare verso una singola piattaforma e un colosso dell’economia dell’attenzione: Facebook, una creatura dell’industria tecnologica che non sente alcun impegno di nascita verso il giornalismo…. che vuole evitare la responsabilità dell’editing perché l’editing non porta crescita… che facilmente fa emergere una domanda di storie false su eventi reali… e che sta lentamente assumendosi la responsabilità del rapporto quotidiano con gli utenti del sistema informativo, specialmente su mobile, perché è lì che c’è crescita.
15. Un modello testato — testato, di fatto, dal miliardario Peter Thiel — per mandare in bancarotta gli editori e far loro chiudere bottega usando il sistema dei tribunali e dei processi con giuria, un modello che può far leva sul pubblico disgusto verso I Media (vedi sopra al punto 6) per chiedere risarcimenti che gli imputati sono impossibilitati a pagare. Finora non esiste una strategia alternativa. Il fatto che abbia funzionato una volta ha un effetto intimidatorio.
16. Una crisi di rappresentazione sulla copertura di Trump nella quale non è chiaro se qualcuno possa dirci in modo affidabile quali sono le sue posizioni o spiegare le sue ragioni per tenere quelle posizioni, perché lui si sente libero di contraddire consiglieri, portavoce, surrogati, e dichiarazioni che lui stesso ha fatto in precedenza. Come mi ha detto Charles Pierce di Esquire: “Nessuno parla per il presidente eletto, nemmeno lui stesso”. Lo metto qui nella lista perché la stampa non è molto brava ad abbandonare rituali e routine quando cessano di avere senso. Ogni intervista con Kellyanne Conway o Reince Priebus è preceduta dal presupposto che costoro rappresentino l’uomo al potere. Questo presupposto può essere falso. Ma i giornalisti hanno bisogno di qualcuno da intervistare! Così continuano a farlo, anche se facendolo potrebbero dare informazioni ingannevoli al pubblico. Potrebbero perfino rendersene conto e non essere lo stesso in grado di cambiare direzione. Quello che sto cercando di sottolineare è che i metodi esistenti per “costringere il potere a rendere conto” si basano su assunti su come il potere si comporterà. Ma non si può costringere a render conto con i mezzi abituali un uomo al potere che è indisturbato dalle contraddizioni ed è a suo agio nella confusione che crea.
17. Una leadership debole e una struttura istituzionale fragile nella stampa americana, che non è abituata a organizzarsi per rispondere agli attacchi o ad agire in modo assertivo e coordinato, come nel caso dell’Associazione dei Corrispondenti dalla Casa Bianca, che in questo momento non sta riuscendo nemmeno a ottenere un incontro con la squadra di transizione di Trump, però sta ancora pensando di ridacchiare con lui alla cena annuale dei corrispondenti della Casa Bianca a primavera del 2017. Per molti versi, la stampa sembra un “gregge di menti indipendenti”, in cui nessuno è responsabile per la bestia nel suo insieme, e non ci sono modi facili per riparare pratiche che non funzionano più o per reindirizzare gli sforzi. La collaborazione nel giornalismo è davvero in crescita, e questa è una cosa buona. Ma mentre è facile agire contro la stampa nel suo insieme, è quasi impossibile per la stampa nel suo insieme deliberare e rispondere. E anche se la stampa dovesse miracolosamente scoprire la volontà di farlo, questo probabilmente fornirebbe nuove munizioni ai suoi nemici politici. Restare un “gregge di menti indipendenti”, politicamente debole, è quindi ancora la strada più sicura. Il che non significa che funzionerà.
Così, questo è ciò che intendo quando dico che “sta arrivando l’inverno”. Tutte quelle cose dal punto 1 al 17 stanno succedendo contemporaneamente, e si rafforzano una con l’altra. Il loro effetto combinato è raggelante.
Gli elementi in comune: bassa fiducia generalizzata, e una destra nazionalista imbaldanzita che tratta la stampa come il suo nemico naturale; il conto che ci si presenta per decenni di traccheggiamento su un modello di reportage politico che funzionava bene per gli appassionati ma che ha mancato di coinvolgere tutti noialtri; il fatto strano e disorientante che la realtà stessa sembra essere diventata una forza più debole in politica; il fascino dell’”uomo forte” e la sua propaganda all’interno di un’atmosfera di dubbio radicale; la difficoltà di applicare metodi standard di giornalismo a un uomo di potere che non sta cercando di rappresentare la realtà ma di sostituirla con se stesso in una dimostrazione di forza; le vecchie abitudini che si rivelano inadatte quando i professionisti del giornalismo tentano di affrontare queste condizioni confuse; una base economica danneggiata, una struttura istituzionale debole, una monocultura delle redazioni che ostacola qualunque reazione creativa, e una nascente consapevolezza che la libertà di stampa è una condizione molto fragile, non una certezza costituzionale.
Ci sono dei segni positivi? Sì, qualcuno.
18. Quando si domanda di specifiche testate di stampa (e non dei Media in generale) il quadro migliora.
19. Cito l’editorialista del New York Times Jim Rutenberg: “Nelle settimane dopo le elezioni, riviste come il New Yorker, The Atlantic e Vanity Fair; quotidiani come il New York Times, il Wall Street Journal, il Los Angeles Times e il Washington Post; e non-profit come NPR e ProPublica hanno riferito di grossi incrementi nelle quote di abbonamento o nelle donazioni.” E hanno sentito lo stesso beneficio anche il Guardian e Mother Jones.
20. Secondo Ken Doctor, analista dell’industria dell’informazione, nel nuovo anno il Washington Post assumerà 60 giornalisti in più. Il Post sta facendo di nuovo profitti. E la sua leadership è convinta che “le storie investigative facciano bene al marchio e agli affari” — che non siano quindi una spesa da finanziare con iniziative più leggere, ma un materiale sostenibile in sé. Questo è significativo.
21. Man mano che si chiarisce il livello dell’emergenza, è possibile che i giornalisti negli Stati Uniti si sentano ispirati a fare un lavoro migliore e fare i cambiamenti necessari. Quando un pubblico adatto alle notizie serie dovesse svegliarsi dal suo sonno, talenti (e suggerimenti) potrebbero arrivare a pioggia.
22. Trovandosi ad affrontare lo stesso livello di ostilità in diversi paesi dove si riscontrano condizioni simili, i giornalisti potrebbero scoprire un livello di collaborazione internazionale che li aiuti ad affrontare la minaccia alla loro occupazione. Esiste già un movimento globale per il fact-checking nel giornalismo. Forse ne emergerà un altro intorno alla realizzazione che il fact-checking non è sufficiente.
23. Negli Stati Uniti, la Costituzione resta fermamente al suo posto, difficile da alterare. Le protezioni del Primo Emendamento sono reali e fra le più robuste del mondo. Non ci sono segni all’orizzonte di restrizioni a priori o di aperta censura governativa — anche se l’autocensura è tutta un’altra faccenda.
Cosa non fare…
24. Non reclutare fedeli a Trump negli spazi informativi e di opinione (il modello è Jeffrey Lord della CNN) come sgargiante dimostrazione di equilibrio. Questo non vi salverà. Le voci conservatrici, dei “red states” (stati repubblicani, NdT), proletarie e rurali possono meritare un reclutamento speciale, ma se hanno veramente integrità avranno pari probabilità di essere anche critiche verso Trump.
25. Non abituarsi al giornalismo guidato dalle accuse invece che dalle prove, soltanto per evitare gli attacchi dei sostenitori di Trump che odiano la stampa o per dimostrare quanto siete bilanciati.
26. Non far sì che tutto il giornalismo politico ruoti intorno all’accesso al presidente e ai suoi assistenti, o mantenere le abitudini del reportage alla Casa Bianca, come sta facendo la stampa in questo momento più che altro per abitudine. È probabile che una presidenza Trump sia costruita su un modello di propaganda in cui fomentare la confusione non è d’ostacolo ai programmi dell’amministrazione, ma anzi un segnale che la propaganda sta funzionando. Avere accesso a un simile meccanismo potrebbe finire per arruolare la stampa nella campagna di disinformazione. E qui sto correndo troppo perché ancora non sappiamo come sarà la Casa Bianca di Trump. E non sto dicendo che l’accesso al presidente e ai suoi principali consiglieri non sia importante, o che sia una parola sporca. Piuttosto, dico che non dovrebbe essere il principio organizzativo dei giornalisti che si stanno preparando a raccontare Trump.
Nella seconda parte di questo post discuterò alcune “misure che vale la pena adottare”, basate su quello che ho scritto in questa prima parte. Ho diverse piccole idee, e un’idea più grande. Quest’ultima riguarda l’ascolto di ciò che preoccupa gli americani meglio di quanto non faccia il sistema politico, e come trarne un progetto di giornalismo appropriato. Non è un concetto nuovo, ma è di nuovo rilevante adesso che per il giornalismo pubblico è arrivato l’inverno.
Photo credit Renee McGurk, Creative Commons License.
Prospettive per la stampa americana sotto Trump, parte seconda — di Jay Rosen.
L’inverno sta arrivando. Ma ci sono cose che si possono fare. La seconda parte del mio post sulla stampa americana sotto attacco.
Nella prima parte di questo post, ho descritto in 17 paragrafi numerati una situazione tetra per la stampa americana come controllo del potere, adesso che è stato eletto Trump. Il mio riassunto diceva così:
Bassa fiducia generalizzata, e una destra nazionalista imbaldanzita che tratta la stampa come il suo nemico naturale; il conto che ci si presenta per decenni di traccheggiamento su un modello di reportage politico che funzionava bene per gli appassionati ma che ha mancato di coinvolgere tutti noialtri; il fatto strano e disorientante che la realtà stessa sembra essere diventata una forza più debole in politica; il fascino dell’”uomo forte” e la sua propaganda all’interno di un’atmosfera di dubbio radicale; la difficoltà di applicare metodi standard di giornalismo a un uomo di potere che non sta cercando di rappresentare la realtà ma di sostituirla con se stesso in una dimostrazione di forza; le vecchie abitudini che si rivelano inadatte quando i professionisti del giornalismo tentano di affrontare queste condizioni confuse; una base economica danneggiata, una struttura istituzionale debole, una monocultura delle redazioni che ostacola qualunque reazione creativa, e una nascente consapevolezza che la libertà di stampa è una condizione molto fragile, non una certezza costituzionale.
Questa crisi ha molte cause sovrapposte e radicate; non è soltanto un problema, ma quello che gli studiosi chiamano un wicked problem (problema di pianificazione sociale così stratificato e mutevole da non poter essere risolto, NdT) — insomma, un casino. E un casino non si “risolve”, lo si accosta con umiltà e lo si rispetta nella sua bestialità. Tentare di risolverlo con quello che sai e non riuscirci ti insegna qualcosa in più sulle sue complicazioni. Questo è un passo avanti. Capire anche che nessuno è un esperto del problema aiuta, perché significa che le buone idee possono arrivare da qualunque parte.
Anche essere disposti a ricominciare da capo è una cosa buona. Se fossi io a gestire un desk di informazione nazionale a Washington, tenterei di azzerare tutti i filoni informativi. Tradotto: se non ci fossero temi già esistenti per raccontare gli interni nell’America di Trump, se doveste reinventarli da zero, alla fine che aspetto avrebbe l’insieme dei temi scelti? Questo risolve ciò che si è rotto nel giornalismo? No. Ma provarci potrebbe rivelarci delle opportunità che prima faticavamo a vedere. Sarò chiaro: io non ho soluzioni a ciò che descrivevo nella prima parte. E non sto dicendo che i miei suggerimenti siano all’altezza del compito. Non lo sono. Piuttosto, queste sono le cose a cui riesco a pensare. Ho una serie di piccole idee che potrebbe valer la pena di provare e una più grande da sviluppare. Vorrei avere per voi risposte migliori.
Misure che vale la pena adottare (non “soluzioni”).
27. Sganciare l’agenda delle news dal feed di Trump su Twitter. Io non sono d’accordo con coloro che dicono che la stampa dovrebbe ignorare i tweet di Trump. Perfino chiamarli tweet è in qualche modo un’illusione. Si tratta di dichiarazioni pubbliche di un presidente eletto. Di bollettini dall’alto. Chiamarle col nome del loro mezzo di distribuzione (Twitter) non aiuta. Non si possono ignorare più di quanto si possa ignorare un annuncio sul sito ufficiale della Casa Bianca.
Ma è vero che Trump usa il proprio feed su Twitter per deviare, distrarre, intimidire, monopolizzare e confondere. La stampa dovrebbe trovare un modo per maneggiare questi bollettini — e sottoporli a fact-checking — che li riduca a una barra laterale, oppure li tessa in una storia più grande creata dai giornalisti piuttosto che dal dito Twitter di Trump. (Una delle opzioni è l’annotazione.) Non permettete al feed di Trump di stabilire di cosa dovete parlare. E state più attenti a come titolate! Potrebbe essere proprio quello che vuole Trump: il vostro titolo pigro.
28. Passare da uno schema dall’esterno verso l’interno piuttosto che dall’interno verso l’esterno. Partire dall’idea di non avere alcun accesso a Trump e alle persone a lui vicine, o immaginare che il gioco dell’accesso dia una somma negativa. E adesso? Dovrete sempre scoprire cosa sta succedendo, ma il portale dell’”accesso” è chiuso. Questo mi sembra meglio come punto di partenza, anche mentre lottate per ottenere un accesso reale, difendete il briefing quotidiano e chiedete pronte risposte alle richieste inviate sotto il Freedom Of Information Act. Lavorare dall’esterno verso l’interno significa comnciare lavorando dai bordi procedendo verso il centro, piuttosto che il contrario. A livello di notizie interne, comporta la ricerca di fonti nelle agenzie e negli uffici pubblici piuttosto che coloro che si definiscono “attori in gioco” (proprio come si fa normalmente nel giornalismo investigativo). E in politica estera, significa che da altri governi arriveranno maggiori informazioni che dal governo americano.
Durante la campagna di Trump, chi aveva l’accesso migliore? I reporter che stavano nel recinto dei media, o quelli che compravano il biglietto per gli eventi e viaggiavano con il resto del pubblico? Le testate finite sulla lista nera erano davvero svantaggiate? Sento già la risposta. Abbiamo bisogno di entrambe le cose: dentro e fuori. Bene, facciamo entrambe le cose. Il punto per me è che il metodo dall’esterno verso l’interno può diventare il metodo di partenza, e quello dall’interno verso l’esterno la sua variante occasionale. Scambiateli, Quando il briefing diventa un pasticcio privo di notizie, mandateci gli stagisti. Spostate i giornalisti esperti sui bordi.
29. Essere meno prevedibili, per favore. Se Trump può infrangere le regole, allora possono farlo anche i giornalisti che lo raccontano. Quando non siete dove lui si aspetta che siate, vincete. Non sviluppo ulteriormente questo concetto perché verrei meno al suo scopo.
30. Non andate alla cena dei Corrispondenti della Casa Bianca. Basta. Il perché lo sapete.
31. Mappate da vicino le promesse di Trump e le sue sparate in campagna elettorale in modo da poterle confrontare con quello che sta facendo. Succede già. Più cose così.
32. Da un follower su Twitter: (le buone idee possono arrivare da qualunque parte). Cercate e accettate proposte di parlare alla radio nelle zone dove Trump ha più sostegno. Addetti allo sviluppo dell’audience, questo è un compito per voi. L’argomento perfetto di cui parlare alla radio nei “red states” (stati Repubblicani, NdR): paragonare le promesse di Trump in canpagna elettorale a quello che ha effettivamente fatto.
33. Unite le forze con gli studiosi che ci sono già passati. Specialmente gli esperti di autoritarismo e quei paesi in cui le condizioni democratiche sono state minate. In modo da sapere da cosa guardarsi — e raccontarlo. (L’autoritarismo strisciante è un tema in sé: chi avete messo dei vostri a coprirlo?)
34. Tenete d’occhio l’internazionalizzazione di queste tendenze, e trovate situazioni in cui collaborare con altri giornalisti oltre confine.
35. Cercate di simulare e testare la perdita di libertà di informazione o la sparizione della capacità di costringere il governo a rendere conto delle sue azioni.
36. Trovate modelli di copertura giornalistica che siano trasversali. Per esempio: “Dave Weigel, che ha portato la sua voce originale e la sua vasta conoscenza dell’estrema destra e dell’estrema sinistra alla nostra copertura della campagna 2016, farà lo stesso sulla Collina. Seguirà Bernie Sanders e Elizabeth Warren al Senato, e la Freedom House alla Camera. Cercherà nuovi movimenti, nuove fazioni e nuovi protagonisti. E continuerà a raccontare la cosiddetta alt-right e l’industria delle fake news, tracciandone le origini ed indicandone gli autori in tempo reale.”
37. Imparate da Fahrenthold! Niente di ciò che ho detto fin qui affronta il problema più difficile del giornalismo in questo momento: riguadagnarsi la fiducia mentre si fa un buon lavoro. Ma David Fahrenthold, il reporter del Washington Post che ha svelato la finzione delle donazioni filantropiche di Trump sta da solo mostrando la strada. Non sono soltanto le grandi storie in cui sta scavando, o il modo in cui queste chiedono conto al potere. È anche la svolta social che ha preso la sua investigazione, e la lezione di trasparenza che sta insegnando alla stampa.
Fahrenthold spiega quello che sta facendo man mano che lo fa. Permette ai lettori finali del suo lavoro di vedere come lo ha minuziosamente messo insieme. Permette a coloro che hanno qualche conoscenza di aiutarlo. Chi lo segue può vedere quanto va in una delle sue storie, e questo significa che è più probabile che si fidi di lui. (e che non si fidi degli attacchi di Trump… Visto come funziona?) Fahrenthold è anche umano, umile e accessibile, e molto, molto determinato. Non va mai al di là dei fatti, ma quando ha i fatti le canta chiare. I suoi risultati sono così incisivi che le persone mi dicono tutto il tempo che da solo li ha convinti ad abbonarsi al giornale.
Fahrenthold non sta “risolvendo” il problema della fiducia, ma di certo sta aiutando; sta aiutando con quello, col problema di come guadagnare, e col problema dell’odiatore-della-stampa-in-chief (i punti 6, 1 e 8 della prima parte di questo post), mentre intanto macina storie da Pulitzer che dimostrano agli americani perché abbiamo una stampa libera. Ecco come un “casino” si piega agli sforzi pazienti. I metodi di Fahrentold non sono misteriosi. Indicano una strada per ristorare la fiducia, e un progetto che si impara mentre si fa, che nel giornalismo dobbiamo cominciare da domani. Intere squadre di persone dovrebbero fare come fa lui.
Imparate da Fahrenthold! Non posso essere più chiaro di così.
38. Questa non so come metterla, ma ecco qua: bisogna che i giornalisti pensino al giornalismo in modo politico, il che non significa politicizzarlo. Che ci piaccia o no, la stampa è un attore pubblico, che attualmente sta lottando per sopravvivere contro forze che vogliono abbatterla. Questa è una situazione politica per eccellenza, ma niente nell’addestramento dei giornalisti o nel loro temperamento li prepara a combattere la battaglia in cui ci troviamo adesso. Loro pensano che preferiscono inseguire storie, pubblicare quello che trovano e lasciare che la politica badi a se stessa. Ma così non funziona più.
Quello che intendo per “pensare politicamente” comporta alcune domande fondamentali: che cosa difendiamo in cui credono anche altri? Chi è schierato contro di noi? In cosa siamo più vulnerabili? Quali sono i punti di forza dei nostri oppositori? Come facciamo ad allargare la base che ci sostiene? Intorno a che cosa possiamo unirci, a dispetto delle differenze al nostro interno? Quali sono i nostri interessi condivisi che potrebbero permetterci di fare causa comune con persone che non sono giornalisti?
C’è un motivo per cui queste domande (politiche) suonano stonate alla maggior parte di chi lavora nel giornalismo. Una stampa libera deve essere indipendente, altrimenti sarà inutile. Questo resta vero, perfino nell’emergenza in cui i giornalisti si trovano oggi. Ma restare indipendenti non significa resistere da soli. I giornalisti non possono vincere questa battaglia da soli.
Reagendo alla percezione di un’emergenza nazionale, gli americani che ancora hanno fiducia nella stampa stanno mettendo denaro e abbonamenti nelle testate di stampa che vogliono sostenere. E cos’è questa se non una forma di azione civica? Coinvolge non un partito o un gruppo di interesse che compete per il potere, ma un bene pubblico che vogliono che continui ad esistere: un giornalismo che costringa a rendere conto. Nient’altro può spiegare l’aumento delle entrate da abbonamenti che è seguito all’elezione di Trump.
I giornalisti sono soltanto uno dei modi in cui gli americani ricevono notizie. Le ottengono direttamente da chi fa notizia, come accade col feed di Trump su Twitter. Le ricevono da gruppi ideologici mascherati da fonti di informazione, come Breitbart. Le ricevono da intrattenitori come Rush Limbaugh (un oppositore della stampa) o John Oliver (un alleato del giornalismo che chiede conto). Le ricevono da amici e famigliari che passano loro un miscuglio personalizzato di cose. Le ottengono da persone a cui interessano le stesse cose che le raccolgono e condividono online. Le ricevono da cattivi attori che compilano resoconti falsi che sembrano notizie, come Alex Jones o quegli adolescenti macedoni.
Come convincere altre persone a ricevere notizie dal giornalismo — quando hanno tante opzioni a portata di mano — è quello che intendo quando parlo di pensiero politico, ma politicizzare il prodotto sarebbe il modo sbagliato di vincere quella battaglia. È qui che il problema della fiducia nei media incontra i problemi di pratica del giornalismo — le due cose sono in realtà una sola: come cominciare a praticare il giornalismo in modo da espandere la fiducia. È questo che intendevo dicendo “imparate da Fahrenthold”. Lui quella parte è riuscito a farla funzionare.
39. Dove i problemi incontrano le questioni: ascoltare meglio.
Dopo le elezioni ne abbiamo sentito molto parlare: i giornalisti devono ascoltare meglio le persone che sono fuori dalla loro attuale orbita e cogliere i segnali che in qualche modo si sono persi nel 2016. Come l’ha messa Jeff Jarvis in un simposio-del-giorno-dopo:
L’industria dell’informazione è incastrata nella sua visione del mondo da mass media, che cerca di creare un prodotto che vada bene per tutti. La sua visione del mondo è limitata dalla carenza di diversità dei suoi creatori — diversità etnica, economica, geografica, politica (e ammettiamo finalmente che la maggior parte dei media e dei giornalisti sono liberal). Dobbiamo fare molto meglio nell’ascoltare più comunità — afro-americane, latine, LGBT, donne, naturalmente, e anche i maschi bianchi arrabbiati (e le femmine) che hanno nutrito il Trumpismo — in modo da poter capire i loro bisogni ed essere empatici, servire quei bisogni, guadagnare la loro fiducia, e poi riflettere e informare le loro visioni del mondo.
Dobbiamo ascoltare meglio… Suona bene: chi non sarebbe favorevole? In questo contesto, “meglio” che cosa significa? Meglio di chi? Ecco una risposta astratta (scusate, ci metto un minuto!) I giornalisti, penso, devono ascoltare i problemi delle persone, e trovare i punti che li collegano a questioni di interesse pubblico. E devono farlo meglio di quanto non faccia un sistema politico guasto. Da lì possiamo ricominciare a ricostruire la fiducia.
La distinzione fra “problemi” e “questioni” è stata tratteggiata dal sociologo C. Wright Mills negli anni Cinquanta. Diceva che i problemi sono le cose che preoccupano le persone nella loro immediata esperienza. “Una questione è una faccenda di interesse pubblico, quando si percepisce che un valore caro al pubblico è minacciato.” Quando le questioni che ottengono attenzione sono scollegate dai problemi delle persone, o quando i problemi comuni non emergono e non vengono formulati come questioni pubbliche… è lì che il giornalista-come-ascoltatore può intervenire, e riguadagnarsi fiducia.
Un esempio vivido di questo è il film “Spotlight”. Migliaia di persone sono state personalmente turbate dall’eredità di abusi sui minori della Chiesa Cattolica. Ma la loro sofferenza privata non è diventata una questione pubblica finché non è stato il Boston Globe a farla diventare tale — ascoltando le loro storie, mettendole insieme e chiedendo conto a chi era al potere. Per il Globe, il guadagno in termini di reputazione che ne è seguito è stato incalcolabile: anni di fiducia presso la comunità, impossibile da acquistare in qualunque altro modo.
Ma “Spotlight” è un caso più unico che raro. Suggerire più Spotlight non vale un granché, vero?
Questo appello è stato pubblicato due settimane dopo le elezioni dal sito non-profit di informazioni sugli affari pubblici Texas Tribune: Aiutateci a sentire più voci da più texani.
L’appello chiede alle persone di sostenere con le loro donazioni una nuova posizione:
Voci che prima non venivano ascoltate dall’establishment politico adesso vengono ascoltate. Questo è un buon momento anche per la stampa per raffinare le proprie capacità di ascolto. Questa è ed è sempre stata — o almeno avrebbe dovuto essere — una conversazione a due sensi. Ecco perché stiamo facendo crowdfunding per finanziare il primo ruolo di sempre al Tribune come reporter della comunità. Questo reporter farà uno sforzo in più per forgiare rapporti con i nostri lettori in tutto lo stato, traducendo il loro feedback in storie prodotte dai nostri fantastici giornalisti. La nuova posizione assicurerà che siano le voci di più texani da più posti diversi a informare i nostri resoconti. La specializzazione di questo reporter saranno i texani.
La base fondamentale del lavoro del Texas Tribune sono le notizie sul governo e sulle politiche pubbliche. Qui il Tribune vuole assicurarsi che le questioni che racconta si rivolgano anche ai problemi che i texani sperimentano nella vita. La specializzazione “i Texani” perché quello è un modo di assicurarsi che l’ascolto ci sia davvero. E’ un inizio modesto (una persona, un tema) ma dietro a quel pitch frizzante c’è una grande idea. Il giornalismo che cerca di trovare il proprio pubblico attraverso un reportage “interno” alla classe politica è vulnerabile al rifiuto da parte di fette del pubblico che sono impegnate a respingere quella classe politica. Questo è un problema grosso, per il quale la risposta dell’ascolto suona morbida, rassicurante ed evanescente. Ma non lo è.
Recentemente Andrew Haeg, amministratore delegato della start-up giornalistica Groundsource, ha cercato di tratteggiare com’è un modello basato sull’”ascolto”. Mi ha ispirato la sua descrizione immaginaria di una squadra di ascolto composta di due persone:
Incoraggiato dalle analisi post-elettorali che chiedevano a gran voce un maggiore ascolto, ispirato da Spotlight, addestrato a usare nuovi strumenti e tecniche, e incaricato di testare nuove forme di giornalismo investigativo che parte dall’ascolto, il duo lavora nel cuore della notte, chino sul cibo cinese a domicilio, gli occhi cerchiati, spinto dall’adrenalina, scrivendo man mano un nuovo manuale fatto in parti uguali di giornalismo, lavoro nella comunità, crowdsourcing e giornalismo investigativo.
Il duo stampa e appende volantini fatti a mano nei negozi e nelle aree di servizio dei camion: “cosa dovremmo sapere?”, con un numero di telefono da chiamare o a cui inviare un messaggio. Fanno ricerche con il Freedom of Information Act sui dati del 311 (servizi municipali per chiamate non di emergenza, NdT), scaricano dati del 211 della United Way (servizio nazionale informazioni mediche, finanziarie e domestiche, NdT), usano Splunk e IFTTT e altri strumenti per essere avvisati quando i dati chiave sulla comunità vengono aggiornati. Tengono incontri comunitari nelle città, ricevono durante il giorno presso diner e caffè locali, e formano partnership cruciali con le organizzazioni locali per invitare le comunità più trascurate a partecipare alla conversazione. Costruiscono una comunità di centinaia di persone che fanno domande e votano su a quali si debba rispondere, e che ricevono messaggi con aggiornamenti sul processo di raccolta delle notizie e sulle opportunità di condividere le loro preoccupazioni e le loro storie. Il feed di comunità che il duo sviluppa è ricco, autentico e spesso di una preveggenza scioccante.
Cinque anni fa ho pubblicato questo post: Le priorità dei cittadini nella copertura della campagna elettorale. Alla stampa americana è entrato da un orecchio e uscito dall’altro. Il post descrive un modello di ascolto per il giornalismo elettorale in cui la domanda centrale che viene posta agli elettori non è “per chi voterai”, ma “di cosa vuoi che discutano i candidati mentre competono per ottenere voti” (questa domanda si basa su un progetto del 1992 del Charlotte Observer che fece esattamente questo). Un team di giornalisti che abbia risposte ricche e plurali a quella domanda — perché ha lavorato e ha capito — avrebbe in mano un modello per raccontare le elezioni che costruisce fiducia.
Perché se sai di cosa diversi gruppi di elettori vogliono che discutano i candidati (e se hai ragione) puoi spingere i candidati a discutere effettivamente di quelle cose, che lo vogliano o no. In questo modo avresti anche un tuo modello di priorità per le notizie che è indipendente dai candidati ma espressivo degli elettori. Non so se questo modello avrebbe impedito la sconfitta a cui abbiamo assistito nel 2016, ma so che il giornalismo da corsa dei cavalli ha tradito le persone che lo praticano.
Ogni volta che i problemi non corrispondono alle questioni, c’è della fiducia da guadagnare, per quei giornalisti capaci di ascoltare meglio di quanto non facciano i sistemi che stanno deludendo le persone. In qualche modo dovremo combinare questo pensiero con le virtù più tradizionali del giornalismo, se vogliamo che la stampa regga agli attacchi in arrivo e prosperi in un mondo molto più pericoloso.
Immagine di copertina di Matt Wuerker, Politico.