Per Alaa, compagno
Anche oggi, per il quarto giorno consecutivo, la madre di Alaa aspetterà al carcere notizie di suo figlio che digiuna da 117 giorni. E noi?
Io non so pregare, scrivo. Una specie di rosario per far passare il tempo che non passa, anche se tante brave persone in Egitto ormai sanno che non c’è scaramanzia che tenga.
L’altro giorno, un extra festivo, la madre di Alaa Abd El Fattah ha passato ore al carcere di Wadi el Natroun perché avrebbe avuto il diritto di vederlo. Non lo ha visto, le hanno detto che lui non voleva visite, e che non c’erano né lettere né bucato da ritirare. Nessuno ha fornito altre spiegazioni. Questa madre fatta di roccia è tornata a casa a mani vuote. Facendo una strada, come da quando Alaa è stato trasferito qualche settimana fa, lunghissima. Ignorando come stesse il figlio che digiunava da 114 giorni, e che lei sa non la lascerebbe mai senza notizie, una riga, un biglietto.
La mattina dopo mi svegliavo col Myanmar che mandava a morte quattro oppositori. Biden si salutava col pugnetto con Bin Salman, il mandante dell’assassinio del giornalista Kashoggi, fatto a pezzi nell’ambasciata saudita di Istanbul e portato fuori in una valigia mentre sua moglie, ignara, lo aspettava davanti all’ingresso. I parenti di Shireen Abu Akleh, la giornalista della CNN uccisa dai soldati israeliani, chiedevano giustizia. Intanto, il poeta Ahmed Douma, che un tempo sfidava i fucili della CSF al Cairo con uno scolapasta in testa e che sta scontando quindici anni di carcere, veniva torturato in cella per aver osato protestare contro il pestaggio di un compagno che aveva avuto un attacco di panico. Anche Alaa è in carcere per aver denunciato la tortura su un compagno di cella. Insieme hanno scritto una delle cose più belle che abbia mai avuto l’onore di tradurre, anni fa, quando i suoi scritti dal carcere in arabo transitavano dall’inglese di sua zia Ahdaf Soueif per arrivare all’italiano, al tedesco, allo spagnolo. Oggi per fortuna “Graffiti per due” lo trovate nella raccolta di scritti di Alaa, “Non siete stati ancora sconfitti”, uscita per Hopeful Monster nella traduzione dall’arabo di Monica Ruocco.
Ora, in questi stessi giorni delle botte a Douma, la visita ad Alaa è stata rifiutata alla madre altre due volte. Benché ci sia una telecamera a circuito chiuso che lo riprende 24 ore su 24 in cella, non c’è nessun modo di sapere se è vivo. Oggi è il suo 117º giorno di digiuno.
In questi 117 giorni migliaia di persone in Europa, in Africa e negli Stati Uniti si sono mobilitate per Alaa, in gran parte grazie alla spinta propulsiva della madre, della zia e delle sorelle, che raccolgono quello che hanno seminato in questi anni: rispetto, affetto, ammirazione, gratitudine. La vicenda di Alaa, disposto a morire di fame per ribadire il possesso del proprio corpo, i principi di legalità e il diritto alle visite del console britannico e degli avvocati, è stata sviscerata sul New York Times, sul Guardian, su The Nation, sul Washington Post, sulla BBC, su Al Jazeera, sulla CNN. Il PEN International lo ha eletto membro onorario, Access Now ha parlato di lui nella sua conferenza annuale. Decine di persone hanno digiunato per lui in Italia. Decine di parlamentari britannici hanno firmato un appello alla ministra degli Esteri Liz Truss perché discutesse il caso di Alaa con l’emissario di Sisi in visita a Londra – prima che il governo di Boris Johnson implodesse. E so che molte pressioni sono avvenute dietro le quinte. Ma ora che Liz Truss è impegnata a cercare di diventare il capo dei Conservatori, nulla ancora si è mosso.
Per l’assassinio feroce di Giulio Regeni non abbiamo ancora nessuna giustizia. Per Patrick Zaki, dopo due anni di carcere preventivo, c’è il limbo permanente di un’assoluzione che non arriva e del divieto di viaggio, che gli impedisce di tornare in Italia a continuare gli studi. Mahienour al Masry, a sua volta avvocata di persone detenute per un post su Facebook, aspetta ancora di riavere il passaporto. E le pagine social sono piene di foto di prigionieri politici con i loro neonati, i loro gatti, i loro cani che li aspettano a casa. Storie di persone che, assolte dopo calvari kafkiani, vengono rimesse in carcere col pretesto di una nuova accusa. Per la maggior parte sono uomini e donne che non hanno un centesimo in tasca, e a volte sono l’unica fonte di sostentamento della loro famiglia, mentre chi li tiene in carcere continua ad arricchirsi.
Tutto questo mi pare ci dica che sui diritti umani abbiamo toccato un massimo di cinismo. Sappiamo troppe cose, adesso. L’orrore è ovunque, siamo esausti. Sappiamo che per ogni accordo che un governo fa per salvaguardare un approvvigionamento di energia, ci rimettono i diritti umani di qualcuno. Sappiamo che non c’è indignazione dal basso o solidarietà che possa inceppare gli ingranaggi di un sistema economico vergognosamente ingiusto, prepotente, che protegge pochissimi con la sofferenza di molti. Non so se lo abbiamo capito, ma il nostro stesso modo di vivere si regge su questa sofferenza.
La stampa italiana se ne fotte del referendum sulla costituzione in Tunisia, delle proteste in Sudan (che fra le altre cose hanno fatto rinascere il sindacato locale dei giornalisti), e toglie dalle prime pagine la cronaca dei bombardamenti russi sull’Ucraina. I diritti umani sono una specie di nobile hobby, milioni di persone li difendono ma in Occidente sono diventati una cantilena senza senso, fatta di casi individuali. Una somma nauseante, opprimente, di casi individuali – che devono litigarsi l’attenzione a suon di meriti, una cosa dalla quale lo stesso Alaa ci aveva messo in guardia anni fa. In un giorno che non dimentico, camminando sul corso al festival di Perugia, l’attivista del Bahrain Maryam Alkhawaja mi disse: “se non rispettano i diritti umani nemmeno i paesi che noi sbandieriamo davanti ai nostri dittatori come esempi di democrazia e diritti, che credibilità abbiamo?”
Non voglio scrivere qui dell’importanza che l’incontro con il pensiero di Alaa ha avuto per me in questi undici anni, mi fa troppo male. Ho digiunato tre volte per fargli compagnia, contenta di farlo con altri con lo stesso senso, senza bisogno di dir molto. In quelle ore di digiuno, davvero un piccolo sacrificio ma lento, meditativo, ho compreso ancora meglio la sua scelta e mi sono sentita riportata alla dimensione giusta: ciò che posso affrontare e agire col mio singolo corpo, senza restare a guardare. Ma non è certo così che lo salviamo, lo so.
Quello che mi fa impazzire, mentre aspettiamo di conoscere il destino di un singolo individuo che ha toccato la vita di tantissimi perché ha colto la sfida del suo tempo, è che tutto, tutto il maledetto prezzo da pagare debba stare sempre solo sulle sue spalle e su quelle delle persone che lo amano, nel privato, e non dove invece dovrebbe: nella dimensione pubblica – spirituale e politica – che ci riguarda tutti, per la responsabilità che dovremmo portare tutti, per un futuro giusto per cui dovremmo lottare tutti.
Io mi dispero per il mondo che stiamo lasciando a chi verrà dopo. Alaa è l’unico che in questi anni mi sia venuto naturale definire “compagno”. Qualunque cosa gli accadrà, sarebbe ora che ne fossimo all’altezza.