”Aveva scoperto di non avere un'anima che fosse solo sua. Aveva scoperto di avere solo un pezzetto di un’anima immensa. E aveva capito che non va bene andare a vivere nel deserto, perché lì il nostro pezzo d'anima non serve tranne quando sta con il resto, ed è intera”.
Alla fine, nella mia vita, ha sempre ragione Casy in Furore.
Sono dieci giorni che non commento nulla sui social. Devo stare ferma un po’. Magari il prossimo podcast sarà la settimana prossima (anche se adesso trovate tutte le puntate anche sul mio sito, su Apple Podcasts e su Spotify). Invece vi scrivo qui.
Il dolore per la perdita di un amico mi ha messo in una nicchia di tristezza, quella del tipo che si può solo accettare senza scalciare. Sto nello scarto fra un dolore personale profondo e l’isteria pubblica del dolore che vedo riflessa ovunque (e che sembra più un tentativo di NON pensare al dolore).
Scrivere è il mio lavoro, l’unica cosa che so fare davvero e che non posso fare a meno di fare, più naturale del cibo e del sonno. Ma intorno a me le parole non hanno significato, e mi sono chiesta se non mi stessi trasformando in una complice dell’isteria, un’altra di quelle persone che vedo sui social fare cinque post antisociali al giorno rispondendo con un sarcasmo cronico a opinioni altrui che io nemmeno vedo perché sulla mia bacheca non compaiono. Come dice Helen DeWitt, “se fossero armi vere, sareste già morti”.
Allora, a chi sto rispondendo? Perché? Cosa mi fa infuriare? Cosa credo di correggere? Cosa sto cercando di controllare che è impossibile controllare?
Le opinioni che ho sono confuse e fallibili come quelle di chiunque altro, e identico quel senso di impotenza che sfoghiamo urlando e giudicando e strepitando e ironizzando. Dell’area geopolitica interessata dalla guerra so molto meno che di altre, quindi quale miglior occasione per tacere? Su Twitter ho fatto per 12 anni un lavoro di selezione, ricerca di fonti, raccolta, identificazione, verifica, contestualizzazione, raccordo - ma stavolta, perfino con i tweet diffusi da giornalisti, si lavora in un ambiente completamente inquinato dal narcisismo, dalla propaganda, dalla retorica, dai falsi, dalla paura, dall’ansia, e da un molto comprensibile smarrimento. È la guerra, per di più inserita in un chiacchiericcio da signoramia e nostalgie bellico-patriottiche da divano che ormai domina la conversazione pubblica, come se le riviste scandalistiche degli anni Ottanta, con i loro luoghi comuni moralisti e le loro indignazioni a comando e le loro parate di re e regine veri e finti, fossero esplose in milioni di frammenti sommergendoci tutti. E allora di chi è la colpa se partecipo a quel rumore a tutti i costi, pur sapendo di non poter offrire un buon lavoro? Mia.
C’è molto amore nelle scatole di viveri e medicine messe su un Tir per l’Ucraina nel mio quartiere, e proprio poco amore sulle pagine social. Così ho smesso di postare opinioni sulle notizie correnti. Sono soltanto dieci giorni e ammetto che mi pare un mese. Faccio questo esercizio: ogni volta che scorro o leggo qualcosa che fa scattare in me il desiderio di rispondere, prendo un appunto solo per me. La metà delle volte è da buttar via, e nell’altra metà dei casi può aspettare. Non postare a sua volta riduce del 60/70 per cento le visite inconsce ai social per controllare se ci sono reazioni o risposte. Si potrebbe dire che con questa guerra abbiamo toccato il vertice del rapporto inverso fra quantità di spazi informativi e sostanza delle informazioni. Per essere più o meno informati su cosa succede nella guerra basta un brutto TG, e di quelli ne abbiamo. Ma astenendosi dal commentare, il tempo dell’attenzione si spalanca, e quello spazio lo sto dedicando (come facevo una volta) a parlare con le persone più vicine, a studiare e leggere libri. Sto cercando di capire come scriverò nel futuro.
Leggo libri che mi aiutino a capire come mi sento - un po’ in questo demenziale frangente storico, un po’ in questo punto della mia vita. Mi era successo a 40 anni scoprendo di essere davvero e inevitabilmente una femminista - una delle cose che avevo rifiutato, credendo di non averne bisogno e delusa dalle donne più vecchie di me, che predicavano il femminismo mentre nel lavoro e nel potere erano le peggiori alleate degli uomini e ignare di tutte le contraddizioni di privilegio che incarnavano. Allo stesso modo ora sto mettendo a fuoco che la gran parte delle condizioni della mia vita che in base a come ero stata educata credevo fossero interamente in mano a me (dalla famiglia mononucleare al successo, dall’arte alla libertà di movimento, dall’avere o non avere figli agli attacchi di panico alle speranze per il futuro) sono invece profondamente condizionate da costrutti sociali.
Scoprire che forse i miei sogni non erano miei. È un pensiero spaventoso per una figlia di ottimisti giovani e belli a loro volta figli della Seconda guerra mondiale, ma ti mette in mano la chiave che apre una porta enorme. E là voglio provare a scrivere. Là dove alle persone che vogliono lavorare viene fatto credere di poter accettare l’inaccettabile. Là dove alle persone depresse viene fatto credere che siano loro ad essere tristi e malate e non la società in cui sono cucite. O dove alle donne viene inculcata nei fatti l’aspettativa di un solo tipo di amore, un solo modello di famiglia, una sola follia dell’emancipazione continuamente barando fra l’amore e la cura e il lavoro e viceversa, e scambiando la libertà sessuale per libertà in assoluto (guardacaso spesso premiata con le botte).
Ieri ho finito di leggere Work won’t love you back, un libro di Sarah Jaffe, una studiosa del lavoro che ho conosciuto proprio su Twitter. È una ricerca serissima sulla storia delle lotte sindacali oggi e la condizione del lavoro industriale, del lavoro delle donne, del lavoro artistico, del lavoro domestico, del lavoro precario, della tecnologia del lavoro, del lavoro non pagato, degli studenti iperqualificati e disoccupati, dello “stage della speranza”. Il titolo è molto ammiccante e per 4/5 del libro, viziati come siamo dalla nozione di amore romantico, sembra solo un’esca.
Piano piano però, ed è la cosa che mi ha scaldato il cuore perché è la stessa che mi ha spinto a scrivere Canto la piazza elettrica, emerge uno spirito: tutto ciò che ci è stato venduto come conquista individuale non sta in piedi se non è frutto di una solidarietà collettiva. E siamo sfiancati da tutto il lavoro sociale che serve per rimediare alle storture, perché invece di edificare un’utopia, basta a malapena a mettere una pezza a un sistema che non funziona. La nostra felicità è possibile solo con i nostri simili, noi non esistiamo senza il villaggio. Ci hanno venduto un’illusione di avanzamento individuale che disinnesca la solidarietà collettiva. E qualcuno ci guadagna. Come sapete, da tempo credo che le persone inconsciamente lo abbiano compreso, e siano furiose e frustate per questo, ma non riescano a esprimerlo se non con il rancore. Penso sul serio che perfino i deliri no-vax-no-Green-Pass-no-io-non-lo-faccio fossero una spia di questo rancore, che senza autentica solidarietà resta agitato alla cieca e fa ancora una volta il gioco dell’individualismo.
Sarah Jaffe lo dice abbastanza chiaramente: il capitalismo falcia le persone, le illude, le discrimina, le isola, le deprime, le mette le une contro le altre, prospera nella guerra, è moralista e feroce e diseguale, è machista e razzista e specista, inquina e divora ed è insostenibile, e continua a produrre nuove forme di schiavitù. Va superato, e va trovato un modo per incorporare nei nostri sistemi di vita l’amore solidale in tutte le sue forme. E lì, di colpo, a tre pagine dalla fine del libro, Jaffe cita l’esperienza delle piazze occupate come Tahrir. Che come vi racconto in Canto la piazza elettrica, si reggono sulla riscoperta di un sentimento di amore collettivo nello spazio pubblico che è un obbiettivo realizzato in sé, a prescindere dal successo degli obbiettivi politici. Ecco quindi, alla fine del libro di Jaffe, l’amore che ti ricambia.
Non so bene perché - forse perché ho perso un amico e nel piangerlo e consolare altri ho ritrovato molto amore, o forse perché sono ancora stupefatta da quanto siano tridimensionali le persone dopo due anni di pandemia - ma proprio adesso, in questo periodo così orrendo della storia umana, provo invece un grande affetto per i miei amici e le mie amiche, per il loro impegno, la loro coerenza, i loro tormenti, le loro battute, i loro gusti, il loro mistero, le loro scelte, i loro vari e pazzi modi di scrivere e interrogarsi e lavorare e amare. Parlo con loro. Ho smesso di aspettarmi che restino per sempre, eppure il mondo non mi è mai sembrato più dolce che in questi dieci giorni.
Non si può smettere di lottare. Abbiamo preso una gigantesca fregatura, e dobbiamo cambiare ogni cosa. Rimettiamo insieme i pezzi dell’anima intera. Un po’ meno social, un po’ meno talk-show, ma un po’ più di amore. Non è male.
Abbiate cura di voi,
Marina
Sono una lettrice rallentata, le email aspettano giorni prima che le apra. Oggi però ho aperto la tua e ti ringrazio per quello che hai scritto. E' così, è come mi sento, è come ci sentiamo in tanti. Smetterla di pensare di dover fare tutto da sola è la prossima cosa da imparare. Un abbraccio
L’amore si sente! Grazie di soffiarlo sul mondo! Ma non è che il capitalismo stia pure diventando molto più autoritario?