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La mancanza di Kim

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La mancanza di Kim

Oggi Kim Wall avrebbe compiuto 34 anni. The Investigation racconta la sua assenza.

Marina Petrillo
Mar 23, 2021
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Oggi Kim Wall avrebbe compiuto 34 anni. 

Laurea a Londra, master a New York, era una brava giornalista freelance. Svedese di Mälmo, viveva a Copenaghen, e pur avendo solo 30 anni aveva già girato il mondo. Col suo compagno aveva preso casa in Cina, dove si sarebbe trasferita entro una settimana. 

Venne fatta a pezzi da un inventore che era andata a intervistare a bordo di un sottomarino artigianale. Molte colleghe scrissero ricordi stupendi di lei. Non solo perché fosse simpatica e generosa e curiosa e prudente e competente, ma perché era una delle eccellenze di una rete generazionale tutta al femminile. Fu sicuramente in quei giorni che un’amica americana che avevamo in comune decise di smettere di postare sui social e di sparire dal giornalismo. Quando penso a quell’amica, penso per forza anche a Kim Wall che non ho conosciuto. 

Per qualche ragione stavo pensando a Kim Wall anche in questi giorni, non solo perché, come le correnti della baia in cui scomparve il suo corpo, il lockdown ha la capacità di far riemergere shock e ricordi (e il suo assassinio è uno di quegli shock), ma forse perché pensavo alle giovani donne che da Londra a Istanbul stanno manifestando. Alla follia di essere ancora qui a invocare il diritto di una donna a uscire e camminare nello spazio pubblico senza essere cosa di nessuno, senza bisogno di imbustarsi ed etichettarsi con un codice a barre di numeri di telefono di riserva e precauzioni e piani B “se dovesse succedere qualcosa”. Pensavo a Kim Wall che quel giorno andava a lavorare, per una volta non lontano da dove era nata, a fare il lavoro che sapeva fare bene e che la faceva sentire felice, a fare un’intervista che le avrebbe portato via solo due ore. Pensavo a me com’ero alla sua età e alle mie studentesse. Pensavo all’uomo che le ha letteralmente staccato la testa, le braccia e le gambe, e ha riempito di pesi il suo corpo per farlo affondare dopo averle inferto diciassette coltellate quando era già morta. Che l’ha violentata, torturata, cancellata, decostruita. 

Ho pensato sempre che l’assassinio di Kim non si potesse raccontare. Troppo simile a una fiaba nera con l’orco, il promemoria che una carta del destino così malevola può far parte del corredo di ogni bambina, anche della più fortunata. Sapevo che forse i suoi genitori, entrambi giornalisti, avrebbero autorizzato oppure scritto un libro su di lei, ma poi non ne avevo più sentito parlare. Me lo immaginavo come un libro senza parole.

Di quelle due strane sorelle nella vita di Kim Wall, la Svezia e la Danimarca, amo tanto le serie - noir e crime ma non solo, da Borgen a Broen. Qualche tempo fa leggevo che dalla trilogia di Millennium in poi, passando per il Wallander di Mankell, il grande successo del noir svedese e danese ha messo i due paesi in una condizione impossibile: da una parte una richiesta centuplicata di nuove sceneggiature, nuove idee, nuovi prodotti. Dall’altra popolazioni piccole, con un mondo del cinema e della tv molto concentrato, impossibilitate a produrre cose così belle a un ritmo così forsennato per adattarsi all’appetito insaziabile di Netflix. Di fatto, un po’ per questo, un po’ perché alcuni straordinari interpreti locali vengono reclutati per fare film o serie internazionali come Game of Thrones, le serie noir locali hanno molto rallentato. 

Poi ho visto che stava per uscire The Investigation. 

Voluto dai genitori di Kim Wall con la complicità della regia di Tobias Lindholm, il papà di Borgen e di alcuni episodi di Mindhunter, è una sorta di film lungo suddiviso in una miniserie di sei episodi, che scorre lento quasi a imitare il tempo reale: fermi lì a non vedere, non sapere, non trovare. Un capolavoro, con interpretazioni mozzafiato di tutti gli interpreti, Laura Christensen, Pilou Asbæke e Søren Malling in testa. Non vi racconto nulla della storia che non si sappia già, nel caso vogliate vederlo su Sky Atlantic o NowTv, e questa è un’altra qualità eccezionale di The Investigation: riuscire a mantenere la tensione benché la storia sia già nota in ogni sua parte. Non lo si guarda per scoprire che cosa è successo, ma per capire di cosa sa quello che è successo.

I genitori di Kim Wall hanno detto di averlo pensato come un ringraziamento per le persone che lavorarono giorno e notte all’indagine, e quella gratitudine si sente. Solo con una cura infinita si può esprimere una fotografia in mare così potente, lasciando allo spettatore il tempo per comprendere quello che è accaduto; o fissare gli attori con primi piani così affettuosi. 

A cominciare dalla scelta di non citare il sottomarino nel titolo benché la storia di Kim Wall sia nota proprio come “il giallo del sottomarino”, The Investigation lavora per sottrazione, e si regge sul contrario dell’esibizione, della violenza, del macabro, del voyeurismo, della morte esibita e masticata a cui ci siamo abituati soprattutto quando investe e sfigura il corpo delle donne. Qui la morte non diventa mai un flashback su una donna viva, e l’assenza non è un corpo sul tavolo dell’autopsie: il corpo non si vede mai, né l’uomo che l’ha smembrato. Le sequenze sembrano atti di una processione, il loro unico scopo quello di seppellirla e onorarla e restituirla integra. 

The Investigation è una rara manifestazione delle possibilità che lo schermo ha ancora, delle sue infinite sfumature. È la storia della mancanza di Kim. Anche se non l’ho mai conosciuta, manca anche a me, e a volte penso che dovrebbe mancare a tutti.

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