Appunti su Born to Run (il libro)
le note che ho scritto per i due reading di presentazione dell’autobiografia di Bruce Springsteen a Milano e Roma.
le note che ho scritto per i due reading di presentazione dell’autobiografia di Bruce Springsteen a Milano e Roma.
Alcuni di voi mi hanno chiesto dove potevano trovare le note che ho scritto per i due reading con Giuseppe Battiston da Eataly Milano e Roma il 29 settembre e il 2 ottobre, così li pubblico qui. Non sono da intendersi come una recensione, ma solo come alcune veloci riflessioni che ho inserito fra le letture di Giuseppe dal libro — le due parti dialogavano, e sono anche state rimaneggiate varie volte in diretta quindi forse non saranno identiche a quelle che avete ascoltato di persona.
I
In questo libro Bruce scrive sopra, sotto e intorno tutto quello che è stato scritto finora su di lui e sul suo lavoro, e sopra, sotto e intorno tutto quello che lui stesso ha già scritto e detto.
Da una parte si riprende la narrazione della propria vita, con un livello di nitidezza che nessun biografo ha mai potuto raggiungere, ma dall’altra dà per scontata una memoria nota, condivisa, e ci racconta sopra.
Nei rari momenti in cui dedica molte pagine a un passaggio noto — come fa con la vicenda legale col suo ex manager Mike Appel — sembra senta la necessità emotiva di farlo rivivere non come una vignetta, ma come una vicenda complessa a cui restituire le sue sfumature affettive. Di alcuni episodi che sono diventati luoghi comuni della sua biografia, come la sua irritazione al primo concerto inglese all’Hammersmith Odeon di Londra, fa un affresco grande, tridimensionale, che sblocca quell’episodio da come si era calcificato nella memoria pubblica. Per il resto, molte vicende stranote, come quella che coinvolse la sua ex fidanzata e grande fotografa Lynn Goldsmith, non vengono neppure menzionate (salvo forse per un “my girl” di quel periodo che solo lui, o lei, può capire). Bruce racconta per lo più cose poco note, private, o di cui conoscevamo appena il titolo (come i suoi viaggi con gli amici nel deserto) — cose che appartengono più alla vita della mente, come ammette alla fine, che alla cronologia pubblica della sua vita. Le uniche parti che avrete già letto, che peraltro a loro modo sono piccoli pezzi di letteratura, sono frammenti delle orazioni funebri che aveva scritto per Danny Federici e per Clarence Clemons.
Il libro comincia con 50 pagine folgoranti — poetiche e crude — sulla sua infanzia, e poi prosegue invece fin oltre la metà con un racconto lungo e un po’ ripetitivo sull’adolescenza e sugli anni di Asbury Park. In realtà sono le pagine dell’apprendistato, e sono cruciali per poi comprendere le sue riflessioni sulle radici e sui fantasmi e la sua idea tribale di comunità verso la fine del libro. Poi da metà volume riprende con un gran ritmo per tutta la seconda parte. Le proporzioni, e quindi l’importanza attribuita a questa o quella fase, sono molto diverse da come avremmo potuto aspettarcele: “Darkness on the edge of town,” “The River” e “Nebraska,” che lui stesso aveva già tanto raccontato, scorrono in una dozzina di pagine; tutta l’epopea di Born in the Usa sta in un taschino, mentre “The Ghost of Tom Joad” è “il disco che ha stabilito i temi di tutta la seconda parte della mia carriera.” “Magic” viene raccontato, mentre “Working on a dream” no, anche se sono di quel periodo le pagine che descrivono la partecipazione al Super Bowl, e che hanno dato il via all’idea del libro sette anni fa. E ancora, Bruce minimizza il suo costante impegno con le donazioni e la beneficenza (due righe!) e non ripete nulla delle tante cose che ha raccontato negli ultimi anni sull’impegno politico e sul rapporto col pubblico.
Della chitarra racconta tutto, all’inizio del libro. Poi, quando ormai non ci speravi più, racconta tutto della voce, alla fine del libro. Ma della scrittura non dice assolutamente niente, mai. Da dove vengono i versi, le parole, quanto e quando scrive, cosa rappresenta la scrittura per lui. Scrive, e basta.
Il registro è quello dell’intimità. Nulla, lo percepiamo, viene raccontato fino in fondo, si sente un grande pudore. Ma nel registro dell’intimità c’è posto per tutto, dalle confessioni più drammatiche a momenti di un divertimento esilarante. E’ la stessa voce con cui parla dal palco, e dentro c’è tutto quello che conosciamo del suo carattere — la reticenza, la timidezza, la spiritualità, la sfacciataggine, l’umiltà, la comicità surreale alla fratelli Marx.
II
Questo slalom dentro e fuori dalle scene note, come quella della prima volta che vide Elvis in tv da bambino, rende la struttura del libro molto forte e molto sorprendente.
La seconda parte spesso svela perché insistesse tanto su alcuni temi nella prima parte. Un esempio di questo sono le diffuse spiegazioni che Bruce dà nella prima parte del libro sulla sua sobrietà, il suo terrore delle droghe (e il suo atteggiamento inflessibile verso le droghe degli altri) o quando ha scoperto di poter avere invece un rapporto sereno con l’alcol senza trasformarsi in suo padre. L’eco voluta di queste spiegazioni risuonerà in modo più sinistro nella seconda parte, quando Bruce spiegherà la sua necessità degli psicofarmaci per poter condurre una vita normale.
III
Bruce scrive mescolando i titoli delle canzoni alla lingua di tutti i giorni, sapendo che i lettori li riconosceranno — la sua land of hope and dreams, la sua beautiful reward, la sua living proof… Lo fa soprattutto con le canzoni che raccontano la sua famiglia, la sua compagna, la sua paternità.
L’amore e la famiglia — soprattutto la sua resa alla fine di una lunga battaglia fra la resistenza emotiva del “lucky man” e quello che lui stesso chiama “orologio biologico” (un’assoluta urgenza di fare famiglia), sono una parte molto importante della storia. Sebbene raccontati con discrezione — la parte più irraggiungibile del personaggio pubblico — si sente che rappresentano una tappa fondamentale, e mai definitivamente raggiunta, del suo tentativo di migliorarsi come persona. E se da una parte il suo linguaggio quando parla dei miracoli della paternità è sempre biblico, sopra le righe, qui riesce anche a infondergli una fantastica autoironia.
IV
Questo libro è direttamente figlio della psicanalisi, compresa una presenza importante dei sogni.
Qui ci sono cose molto dolorose. Non un po’ dolorose, come sembrava di capire dalle prime recensioni, ma molto dolorose. Non si parla di un uomo con sporadici episodi di depressione, ma di un uomo il cui equilibrio è periodicamente minacciato dalle crisi di una vera e propria malattia mentale. Negli ultimi anni Bruce è sembrato molto insofferente all’aura di santità che gli era stata attribuita, e ha fatto il possibile per dissacrarla, per mostrarsi imperfetto e inguaiato come chiunque altro. Qui invece deve sedersi a parlarci piano piano di un tipo di imperfezione diversa — una fragilità psichica che lo ha reso, oltre che triste, gravemente depresso, a tratti suicida, e anche emotivamente violento con le persone che ama. Bruce parla di sé come di un uomo che sta ancora facendo un percorso per uscire dalla misoginia e da altre eredità oscure della sua famiglia e della sua generazione. Ne scrive con grande tenerezza, con un’acquisita tolleranza verso se stesso e gli altri che credo possa fare bene a chi fra i suoi lettori soffra di problemi simili ai suoi. Ma non è meno difficile leggerlo per questo, come lo sarebbe con un caro amico.
In età adulta, Bruce ha dovuto non solo affrontare la malattia mentale in suo padre, ma anche affrontare, sapendolo, i sintomi della stessa malattia mentale in se stesso, soprattutto negli ultimi anni. Solo quando ho finito di leggere il libro mi sono resa conto che nonostante qui lui parli di 30 anni di cure e di psicanalisi, non parla mai di una diagnosi precisa. E’ probabile che non ne parli per discrezione e per non essere etichettato, e credo che non sia un caso che parli del suo disagio mentale solo adesso che tutti e tre i suoi figli sono grandi e fuori di casa, ma penso proprio che la diagnosi ci sia, probabilmente di persona bipolare. In questa luce, c’è il padre reale, con i suoi goffi riavvicinamenti, il viaggio surreale insieme in Messico, la tenerezza, le crisi, gli spaventi, e c’è il padre come spettro, come DNA, come condanna, come profezia. Lo sforzo strenuo di Bruce per NON essere o NON diventare suo padre non è solo il filo rosso di questo libro, ma la dominante della sua vita.
V
C’è, qui, in un modo che i poveri, bravissimi critici che lo incontrarono alla fine degli anni Settanta cercarono a modo loro di descrivere ma non con questa efficacia, una enorme, ineluttabile consapevolezza di classe. Così enorme che ora fa sorridere ripensare a quel luogo comune del suo successo nell’84/85, quello dell’uomo che ha fatto i soldi e quindi non avrà più accesso alle proprie origini. Bruce parla anche di quel suo complesso, quello del “ricco con la maglietta da povero”, ma alla fine anche lui si arrende a un’appartenenza dalla quale non è possibile fuggire.
Veniamo via da questo libro senza avere la più pallida idea di come abbia fatto “a diventare Bruce Springsteen” (e forse lui è l’ultima persona a cui chiederlo), ma di certo con molte risposte alla domanda “com’è essere Bruce Springsteen”. Ed è molto diverso da quello che pensavamo.
Da un certo punto in poi, non è possibile districare gli altri filoni del libro da quello del disagio mentale. Bruce riconduce a quello perfino la durata dei suoi concerti — davvero non riesce a smettere, perché quello è il posto dove il tempo si dissolve e l’ansia sparisce.
L’unico momento in cui mostra di sapere di essere il più bravo del mondo a fare quello che fa è quando questa cosa si pone come un problema: quando la E Street Band è ferma da dieci anni e lui deve decidere se e perché farla ripartire.
VI
“Born to run” finisce per essere, anche se non intenzionalmente, anche un libro sulla mascolinità, sui luoghi comuni e le trappole e le profezie della mascolinità, e se è per questo, della mascolinità americana. Bruce è, e sa di essere, un prodotto della sua generazione, modellato da forze molto potenti che non dipendevano da lui. Allo stesso tempo, è un artista con una capacità analitica fuori dal comune, e un senso assolutamente unico del posto che vuole occupare nella società e nella storia — come artista, come americano, come uomo privato nel contesto pubblico. Quindi scrive sempre essendo contemporaneamente se stesso e in qualche modo antropologo di se stesso. Come ha sempre fatto anche con le canzoni, si siede accanto a noi a contemplare la vita in generale, la sua abbondanza, la sua meraviglia, le carte che possiamo cambiare e quelle che dobbiamo tenerci così come ci sono state consegnate.
Dal libro non esce intatto nulla, fatta forse eccezione per l’amore, e la longevità dell’amicizia. Di certo non la fama, ma nemmeno la politica, l’impegno, un’idea di America. Quello che invece resiste a tutto è il rispetto sacro che Bruce ha per la musica, la sua e quella degli altri. La musica è la spada nella roccia, la parola d’ordine, la magia, la rivoluzione, la resurrezione, l’utopia — l’unico luogo dove hanno cittadinanza cose che dovrebbero averne nel mondo e non ne hanno, come la sua amicizia interrazziale con Clarence. La musica è il collante del suo desiderio di tramandare. Ci sono pagine stupende su Elvis, i Beatles, il punk inglese, gli Stones, Van Morrison, Sam Cooke, e il primo concerto degli U2 visto a Londra con Pete Towshend degli Who. E Bruce dice che se sulla lapide della sua tomba ci fosse scritto soltanto “soul man,” lui ne sarebbe felice.
La musica per Bruce compie davvero miracoli. Uno di questi è l’arrivo del nuovo, giovane sassofonista della E Street Band. A Jake Clemons vengono dedicate pagine bellissime, quasi più che allo stesso Clarence, o meglio: Clarence emerge quasi più da queste che da quelle dedicate direttamente a lui. Qui Bruce è il mago Merlino, custode di spiriti e maestro alchemico. Nelle pagine su Jake c’è l’idea del futuro secondo Bruce — un futuro accuratamente preparato.
VII
Jake è, decisamente, uno dei “discendenti.”
Nel libro, Bruce menziona il pubblico, cioè noi, solo dopo due terzi abbondanti del libro, ma quando lo fa, è con un’intuizione di scrittura semplice e commovente. Dopo questo momento, tutto il libro sembrerà nient’altro che un’unica, lettera aperta, o una versione lunghissima dei suoi discorsi dal palco.
Così il pubblico, soprattutto i più giovani, finisce per far parte insieme ai parenti, ai nipoti e ai figli, e ai figli e nipoti della E Street Band, di un’unica discendenza — e la questione della discendenza è forse la più importante del libro. Diventa importantissimo qui quell’augurio che Bruce faceva ai propri figli in “Long Time Comin’,” “che i vostri errori siano soltanto vostri”, perché è chiaro quanto lui abbia combattuto per tutta la vita con gli errori e le paure di qualcun altro.
Questa idea della tribù e dell’eredità tramandata, che abbiamo sentito così forte nel tour di “Wrecking Ball,” si salda qui con la sua antica domanda giovanile: “dov’è che sta bene l’uomo con la chitarra? qual è il suo posto nel mondo?”, e con i fantasmi vivissimi, al limite dell’allucinazione, che camminano sulla boardwalk di Asbury Park.
“Born to run” racconta cosa significa porsi quella domanda — dov’è il mio posto nel mondo — nel corso di un’intera esistenza.
(Ne approfitto per ringraziare tutte le persone che sono venute ad ascoltarci e tutti i colleghi con cui abbiamo festeggiato l’autobiografia, i musicisti che hanno partecipato e Alessandra Cozzolino che ha organizzato tutta questa cosa magica. Il mio libro su Bruce Springsteen è Nativo Americano, Feltrinelli, 2010.)