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Bob Marley

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Marina Petrillo
Nov 2, 2018
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047. Marley and me

cari tutti :) vi giungano lieti i miei auguri per Halloween, forse l'unica festività che può trasmettere adeguatamente il clima dei tempi.

Vi è mai capitato di scoprire che una cosa che credevate di sapere in realtà non la sapevate tanto bene? Ecco - io leggo tantissimo, studio tutto ciò che attira la mia attenzione, fin da bambina, ma il lato negativo di questa curiosità (o voracità) è che a volte conosco i "titoli" di alcune cose ma non il contenuto come vorrei - e negli ultimi tempi questo mi colpisce particolarmente quando riguarda cose che amo.

L'esempio più eclatante è Bob Marley. Non so se esiste qualcuno al mondo che non ama la musica di Bob Marley, comunque non sono io. Ho incontrato Bob Marley attraverso i Clash (oggi sembra impossibile che il loro rapporto non fosse di derivazione, ma praticamente contemporaneo, cioè che la musica di Bob Marley ci abbia messo meno di cinque anni a diventare un'influenza nella musica occidentale), e col tempo, attraverso amici molto più colti di me sulla musica e la cultura giamaicana, sullo ska e sul reggae , mi ha aperto un intero mondo di relazioni e concatenazioni musicali. Se un mio caro cugino più grande di me vantava di essere stato al leggendario concerto di Marley a San Siro del 1980, io ho compensato solo quando è toccato a me andare a San Siro per un concerto leggendario - quello di Bruce Springsteen del 1985. Per me era trascorsa una generazione, ma in realtà erano passati solo cinque anni, e Marley era morto nel 1981. Soltanto un paio di giorni fa ho messo a fuoco che durante il concerto di San Siro, Bruce suonò "Trapped" di Jimmy Cliff, un'altra leggenda della musica giamaicana.

Dunque, per me Bob Marley è un gigante, e anche se non ha mai fatto parte dei miei ascolti quotidiani, l'ho sempre visto come un grande vecchio (in realtà è morto a 36 anni). In un certo senso, era come avere davanti un suo poster tutti i giorni - come la celebre foto di Che Guevara - ma non riuscire a vederlo. Poi, tre anni fa, ho conosciuto un ragazzo africano in cerca di asilo in Italia, arrivato dal Gambia, che non solo adora Bob Marley, ma mi ha fatto capire che una spiritualità simile a quella rastafariana è ciò che gli ha dato la forza di attraversare il deserto, sopportare la Libia e prendere il mare. In qualche modo quel suo fortissimo senso di identificazione mi è rimasto sempre in mente, e quando sono andata a Lampedusa, nel piccolo museo delle migrazioni del collettivo Askavusa, non mi ha stupito trovare fra gli oggetti perduti o donati dai giovani migranti tante cassette di Bob Marley corrose dall'acqua salmastra.

In questo periodo sto leggendo parecchio sulle lotte degli afroamericani - saggistica, letteratura, dalle Pantere Nere a Claudia Rankine, e pure settecento pagine di saggio sulla rivolta nel carcere di Attica del 1971. Lo sto facendo con una coscienza molto diversa da quella con cui leggevo prima, come se mi stessi facendo delle domande più profonde, più consapevoli del mio "colore", della stortura colonialista di considerarsi "neutri". Quello che si forma (infinito, inesauribile) è un continente culturale, e anche una compressione del tempo e della storia molto diversa da come la percepivo da ragazza. Non so a che punto del libro sulla rivolta di Attica, una sera, mi è venuto in mente Bob Marley. E una vocina nella mia testa ha detto "Tu in realtà non sai niente di Bob Marley".

E siccome quando sono pronta per qualcosa, di solito mi viene incontro (ed eccoci alle tre cose per voi di questa settimana) eccolo lì, su Netflix, "Who shot the sheriff", un documentario pazzesco sull'attentato che Marley subì nel 1976 nella sua casa di Kingston, quando era già famoso e considerato un notabile dell'isola, tormentata dagli scontri violenti tra fazioni opposte. Un solo frammento della sua vita che in qualche modo la racconta tutta. Allora mi sono messa a cercare i libri, e ho scoperto che "Catch a fire" di Timothy White è considerato una bibbia sulla Giamaica e i suoi movimenti culturali. E infine, 48 ore dopo aver visto il nuovo documentario, la Rai ha trasmesso quello di Kevin McDonald che racconta tutta la sua vita, e che potete rivedere qui.

Come spesso succede, è una storia molto meno romantica di quanto pensassi, ma molto più interessante. Piena di sofferenza, di ingenuità, di povertà, di fierezza, di canne, di donne, di esilio, di contraddizioni irrisolte, di fragilità, di enormi pressioni sociali e poi politiche, di generosità, di passione per il calcio, e di grandi momenti di sperimentazione. Credevo che Bob Marley fosse una persona molto articolata, e non lo era per niente; non sapevo che fosse figlio di madre nera e padre bianco (una cosa che in alcuni momenti della sua storia ha veramente un simbolismo straziante); credevo che fosse l'espressione più alta di un movimento musicale, e invece l'ha letteralmente creato. Ho riso, ho pianto e sono rimasta a bocca aperta. E Marley, più che un grande vecchio, mi è sembrato molto somigliante ai giovani rifugiati che lo ascoltano con le cuffiette, anche se con un carisma e un senso di predestinazione impressionanti. Niente male per qualcosa che credevo di sapere già. Spero che sia una bella (ri)scoperta anche per voi.

One love.
Marina

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